Premio Letterario Internazionale Merano-Europa –Dodicesima Edizione – 2017
Internationaler Literaturpreis Merano Europa 12. Ausgabe 2017
Narrativa in italiano – Italienische Erzählprosa 2017
Primo Premio
Piero Malagoli
Pubblica Confessione
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La notizia rimbalzò per il borgo allora di pranzo. Raggiunse le case, le botteghe e i bar deserti. Anch’io l’appresi, mentre bighellonavo davanti alla canonica, incerto se spazzare lo spiazzo antistante alla chiesa o rimandare all’ora del vespro. Giacomo Nanni era saltato su una mina, vicino a Baiso, nel valloncello che separa il primo dal secondo argine del Secchia. Che ci facesse laggiù, a tre chilometri dalla sua cascina sperduta nella campagna, nessuno lo immaginava. Si vociferava si fosse addentrato in un campo minato di cui nessuno conosceva l’esistenza; che non fosse morto, o almeno non ancora, e che nessuno avesse il coraggio d’inoltrarsi fino al suo corpo agonizzante per prestargli soccorso. Gli uomini stavano organizzandosi per recarsi laggiù, cercando passaggi sulle poche auto o appressandosi alla fermata della corriera che sarebbe passata alle quindici. Altri presero a piedi per i campi, nutrendo maggiore fiducia nelle gambe avvezze a lunghe camminate che negli scarsi e inaffidabili mezzi di locomozione. Anche qualche donna tentò di avviarsi ma poche sfidarono mariti e fratelli che intimarono loro di restare a casa. Io avrei fatto volentieri a meno di quella trasferta e mi limitai a pregare per l’anima del poveretto, svolgendo altre faccende, ma quando mi riferirono che Giacomo aveva espressamente chiesto di un prete, non potei ignorare la chiamata.
“Non sarebbe meglio il dottore…?”, azzardai, per prendere tempo e decidere il da farsi.
“Lo abbiamo cercato a casa e anche alla farmacia…”, m’informò Anselmo, che era venuto a cercarmi e tutto sudato tentava di assolvere al meglio quel dovere, “… ma pare sia impegnato a Viano, per una visita urgente.”
“Sì… lo so io che visite urgenti va a fare a Viano”, insinuai malignamente, per sfogare la frustrazione.
“… e comunque è un prete che ha chiesto…”, confermò Anselmo, a rassicurarmi che fossi io la persona giusta, “… dicono che non ne avrà mica per molto.”
“L’hanno tolto dal campo minato?”, domandai avviandomi.
“Non credo… chi si avventura là dentro?”
Il farmacista aveva messo a disposizione il suo calesse per farmi arrivare più velocemente possibile e durante il tragitto, Manlio, suo uomo di fiducia, che teneva le briglie e aveva già portato un paio di persone laggiù, mi ragguagliò sulla situazione. Pareva che il Nanni si fosse avventurato così lontano da casa per recuperare una capra scappata il giorno precedente. Uomo abituato a gestire le bestie, ne aveva seguito le tracce fin dall’alba, per approdare sul ciglione del primo argine di contenimento quando il sole spuntava dalla pianura. Si era fregato le mani di soddisfazione, vedendola brucare l’erba umida nel bel mezzo del valloncello, prima dell’argine principale.
Giacomo Nanni viveva da solo nella masseria, con l’aiuto saltuario di un paio di lavoranti che assoldava nei periodi più impegnativi. In paese si dicevano tante cose sul suo conto, anche se nessuno ne sparlava apertamente. Forse l’invidia per quell’uomo che provvedeva a se stesso senza aiuti, lo metteva in una luce adombrata dall’acrimonia di tanti, che avrebbero voluto vivere svincolati dalle convenzioni della vita civile o matrimoniale, come lui sapeva fare. Commerciante in animali e prodotti agricoli, che produceva sulla sua terra, scaltro negli affari, pareva, a detta di molti, preferire la soddisfazione di menare per il naso un compratore, a quella del puro guadagno, che pur non disdegnava. Alcune transazioni azzardate erano giunte fino all’ufficio del maresciallo dei carabinieri, per risolversi con un compromesso e un rimborso simbolico per il querelante. Nella vita privata, si favoleggiava di rapporti con donne maritate del paese; anche questo motivo di lusinghiero odio maschile da parte di tanti compaesani, attenti a non fomentare illazioni che un giorno avrebbero potuto ritorcersi contro loro stessi.
Per il resto, la figura di Giacomo era ammantata da quel mistero che rende interessante anche ciò che altrimenti non lo sarebbe. Di statura e corporatura media, capelli di un indefinito color cenere e quattro incisivi superiori che risaltavano, bianchi e perfetti, tra due vuoti lasciati dalla perdita di canini e premolari, non disponeva certo di tale fascino da giustificare tutto il parlare che si faceva in giro sulle sue avventure galanti.
“Chi diavolo ha piazzato un campo minato laggiù?”, domandai a Manlio, senza aspettarmi risposta.
“Chi lo sa…? Qualcuno è già corso dal federale, per capire se esista una mappa del percorso da seguire per soccorrere quel disgraziato… ma pare che i repubblicani incolpino i partigiani di Reggio Emilia.”
Sorpassammo vari curiosi che si affrettavano per arrivare prima che tutto fosse finito. Capimmo di essere giunti quando avvistammo un capannello di gente sul secondo argine, tutti a scrutare nel vallone e indicare a braccia tese un punto giù in basso.
“Io non resto”, chiarì subito Manlio, fermando il calesse a un centinaio di metri, per permettermi di scendere, “non mi va di vedere quello scempio.”
Non potevo dargli torto, nemmeno io sarei accorso se non fosse stato il dovere a chiamare. L’osservai girare il cavallo sulla radura e ripartire verso il paese. Prima di cominciare la risalita dell’argine qualcuno dall’alto annunciò: “Ecco il prete… sta arrivando!” Tutti si voltarono verso di me e un mormorio si diffuse tra la gente come un refolo d’aria. Qualcuno mi allungò la mano, per agevolarmi gli ultimi passi della salita e tra il gruppo di curiosi si aprì un varco per farmi osservare di sotto. C’erano bifolchi anche sull’argine attiguo al corso d’acqua e persone sparse nel pioppeto a est. L’avvallamento creava un’arena naturale attorno all’area di pericolo. Al centro della scena, come in una pista di un circo di morte, stava il corpo di Giacomo, riverso sul fianco destro. Pareva sprofondato con l’anca e la gamba nella terra fino alla cintola, salvo poi notare l’arto staccato a cinque metri da lui. Della gamba non restava granché; era riconoscibile dalla tela bruciata del pantalone, che ancora ricopriva la coscia e gran parte dello stivale, rimasto incredibilmente intatto ma piegato in modo innaturale. Tra il corpo e i resti della gamba, una buca di un metro pareva un cratere lunare. La capra fuggitiva, causa di quel pandemonio, stava dieci passi più in là, a brucare l’erba nuova che cresceva abbondante, ignara del pericolo in cui anch’essa si trovava e vagamente stupita d’essere al centro di quella scena irreale. Si fece silenzio intorno, come se dal mio arrivo ci si aspettasse chissà quale rivelazione. Respiravo a fatica; la breve ma ripida salita mi aveva strozzato il fiato in un punto tra il petto e la gola riarsa. Di Giacomo intravedevo la nuca, il viso era rivolto verso l’argine e ringraziai il Signore che fosse così. Qualcuno pensò di avvertirlo e urlò forte, a suo beneficio: “È arrivato padre Sebastiano!”.
Il ferito si mosse e il tentativo di rizzarsi sui gomiti mi paralizzò dal terrore. Lo spettacolo era già agghiacciante immaginandolo morto ma saperlo vivo e cosciente mi tolse ogni capacità di controllo. Avevo notato dei bambini seduti sugli argini… il figlio di Fosco, il piccolo Francesco e altri che incrociavo giornalmente in paese. Provai l’istinto di strepitare contro gli adulti che permettevano loro di assistere a quell’atrocità.
“Padre Sebastiano…”, chiamò a mezza voce Giacomo, girando il viso terreo e cercandomi tra gli astanti.
“Son qui Giacomo… eccomi…”, seppi solo rispondere, lasciando il culmine del terrapieno e scendendo pochi passi.
“Si fermi padre…”, sussurrò qualcuno, mentre una mano afferrava la mia tonaca e mi tratteneva, “… non sappiamo dove cominci il campo minato.” Riconobbi la voce di Attilio, uno dei mezzadri che lavoravano un fondo a un paio di chilometri verso Modena. Rimasi accovacciato in avanti, nella spasmodica ricerca di una soluzione.
“Padre Sebastiano, voglio confessarmi”, dichiarò Giacomo, senza riuscire a individuarmi tra quella calca.
“Un medico… è stato chiamato un medico?”, domandai, rivolto a un paio d’occhi stupidi che mi fissavano. Non ottenendo risposta, ordinai, con l’aria più risoluta che riuscii a rimediare: “Mandate a chiamare subito un medico… andate anche fino a Viano, a recuperare quello scansafatiche del dottor Allegri… Voglio qui un medico… il più presto possibile”. Nessuno si mosse, ma sentii il mio ordine passare di bocca in bocca e rotolare giù dal ciglione.
“Tra poco avrai un dottore… Giacomo… cerca di non muoverti…”, annunciai all’agonizzante.
“No… non venite qui… salteremo tutti per aria…”, si affannò a comunicare, inquadrandomi finalmente un po’ discosto dalla folla di curiosi. Gli vedevo il bianco degli occhi balenare nel viso sporco di fango. Occhi enormi, terrorizzati. Stranamente non vedevo sangue intorno al corpo. Parte era stato assorbito dalle zolle smosse dall’esplosione, ma la quantità uscita doveva essere sicuramente maggiore. Pure attorno all’arto dilaniato non vedevo pozze rossastre, immaginai che il fuoco dello scoppio avesse cauterizzato le ferite.
“Tu bada a non muoverti”, cercai di rassicurarlo, “io vedo di raggiungerti in qualche modo.”
“È spacciato”, asseriva un carbonaio che aveva abbandonato il carretto per precipitarsi lì, con mani nere di fuliggine e vistose linee scure di sudore a rigargli il collo, “non si sopravvive con ferite del genere.”
“No”, insistette Giacomo, senza potere od osare muovere un muscolo, “restate dove siete padre, confessatemi da lassù.”
Ammetto che in quel momento la salvezza della sua anima mi pareva meno urgente del conforto che sentivo necessario fornirgli con la mia vicinanza, immaginando il terrore che quel poveretto dovesse provare.
“Vengo da te… non temere… troverò il modo e aspetteremo insieme il dottore.” Per muovermi e rompere l’assurda immobilità cui ero costretto, scesi il retro del costone correndo e scivolando. Con un giro costeggiai il campo minato e risalii l’argine del fiume, sperando che il nuovo punto di vista mi suggerisse un’idea per inoltrarmi in quel labirinto mortale. Intanto udivo la voce di Giacomo supplicare, come principiando una confessione: “Signore perdonami, perché ho peccato…”
Intorno il silenzio era quasi perfetto, ognuno s’intrideva le orecchie con quelle che avrebbero potuto essere le ultime parole di un moribondo. Giunto sul primo argine del Secchia, in vista del corso d’acqua, compresi perché il campo minato fosse stato piazzato in quel sito. Il fiume, ovunque ampio e profondo, tanto da poter essere traversato solo grazie all’unico ponte controllato dai repubblicani a un chilometro da lì, proprio in quel punto presentava una strozzatura che una serie di rapide costellate di sassi affioranti rendeva guadabile con l’ausilio di funi di sicurezza. L’intenzione era di evitare che partigiani approdati nottetempo sulla sponda nord potessero avvicinarsi alle casematte, da cui i tedeschi controllavano il corso d’acqua. Da quel punto era possibile apprezzare il quadrato quasi perfetto del campo minato, cinquanta metri per lato, delimitato da due corti pali conficcati nell’argilla ai piedi del terrapieno e una seconda coppia a ridosso dell’argine. Sicuramente qualcuno al comando doveva avere una carta riportante il sentiero sicuro per addentrarvisi.
“È molto tempo che non mi confesso…”, procedeva Giacomo, piangendo e sgolandosi perché potessi udirlo.
“Non è necessario, Giacomo…”, lo rassicurai, cercando di rendermi visibile dalla mia nuova postazione. Si guardò attorno sorpreso, sentendo la mia voce giungere difronte a lui. “Ti assolvo ugualmente… il tuo pentimento basta al Signore per perdonarti.”
“No… voglio vuotarmi la coscienza… non voglio marcire all’inferno”, rispose ostinatamente.
La capra si spostò verso sinistra, per raggiungere un appetitoso cespuglio di sempreverde. Tutto il pubblico istintivamente si acquattò, in attesa dell’esplosione che avrebbe dilaniato l’animale. Non successe nulla e la capra riprese a brucare tranquillamente.
“Ho molto peccato negli ultimi tempi.” Agli spettatori accorsi non pareva vero di assistere a quella pubblica esibizione, che oltre al macabro spettacolo prometteva la soddisfazione di pruriginose curiosità. “Ho giaciuto con donne sposate… e anche con ragazze da marito, all’insaputa dei genitori…” Il tono dolente veniva accresciuto dalla piega amara delle labbra, atteggiate a un ghigno schifato verso se stesso.
“Davvero, Giacomo… non occorre che…”, cercai di farlo desistere.
“Lo lasci parlare, padre”, s’intromise qualcuno dal terrapieno di fronte. Al mio sguardo indignato nessuno si fece avanti.
“… perlopiù erano loro a offrirsi a me… ma io avrei dovuto riflettere… e resistere alla tentazione…”
“Ego te absolvo…”, mi affrettai a pronunziare, prima che allo sfortunato venisse in mente di snocciolare nomi o riferimenti precisi riguardo a quelle relazioni. Intanto tra gli astanti serpeggiava un’inquietudine evidenziata da occhiate torve all’intorno, tese a indagare le reazioni dei compaesani a quelle dichiarazioni.
“Con un paio di loro mi ero perfino impegnato…”, continuò imperterrito, deciso a bere fino in fondo l’amaro calice del pentimento, incurante di ogni forma di ritegno o vergogna. A quelle parole vidi Vincenzo, un mezzadro di San Martino, padre di tre figlie in età da marito, lasciare il suo posto in prima fila e senza badare a defilarsi discretamente, farsi largo per guadagnare il sentiero strapiombante verso la carrabile che riportava in paese. Alcune donne presenti si sedettero e con il mento tra le mani stettero pensierose in attesa di sviluppi. Come a conferma delle sue peggiori supposizioni, nominò la figlia mezzana di Vincenzo, una ragazzona bruna e pettoruta che pareva la salute in persona. “Avevo promesso a Benedetta che ci saremmo fidanzati entro l’autunno…”, seguì un silenzio sospeso, durante il quale alcuni si voltarono per osservare Vincenzo guadagnare il sentiero e, con la testa incassata tra le spalle, avviarsi risoluto verso casa, “… ma non ne avevo intenzione!”, proruppe, in un grido che fece sussultare la capra che smise di ruminare e l’osservò attonita per qualche secondo.
“Dio m’è testimone se non ho ingannato quella povera ragazza…”
“Va bene, Giacomo… basta così…”, cercavo ancora un modo per raggiungerlo, perlustrando febbrilmente attorno, senza che un pensiero utile si affacciasse alla mia mente.
“La tradivo ogni martedì con Costanza…”, non seppi se il brusio di sorpresa fosse frutto di una suggestione, ma vidi chiaramente lo sguardo di tutti cercare la figura di Bartolo, marito della fedifraga, che fortunatamente non era presente, “… quando suo marito era al mercato di Carpineti, lei veniva da me…”, la capra aveva ripreso a brucare ruotando la coda nervosa.
“Riposati, adesso…”, tentai nuovamente, cercando di convincerlo, proponendo una pausa, “… tra poco sarò lì… e proseguiremo in privato.”
Parve chetarsi, riappoggiando la guancia sul terreno e respirando a brevi sussulti. Il resto del corpo era immobile, lo immaginai paralizzato, con la schiena spezzata dall’urto.
Nessuno l’incitò a continuare, forse per il mio sguardo adirato, forse per paura di ciò che avrebbe potuto rivelare proseguendo la confessione.
“Il medico… abbiamo trovato un medico?”, chiesi a nessuno in particolare, affidando la domanda al silenzio imbarazzato che aleggiava intorno.
“Hanno trovato il dottor Sarti… lo stanno andando a prendere con una vettura…”, m’informò Alcide dall’argine di fronte. Si era tolto la pagliuzza dalla bocca per gridare e la stava riponendo nella fettuccia del cappello da lavoro.
“Il veterinario…?!?”, mi stupii dell’incapacità a scovare di meglio.
“L’ha trovato Aldo al podere Dalmasso, stava sgravando la vacca di Fosco… anche lui è dottore!”
Abbozzai. Se un medico non era disponibile, un veterinario sarebbe stato meglio di niente. Intanto si trattava di spostare quel poveretto, possibilmente senza ucciderlo e senza farsi saltare su una mina interrata. Un veterinario era decisamente meglio di niente. Come se quell’intervallo gli avesse ritemprato le energie, Giacomo riprese, alzando la testa di scatto, rianimandosi come una marionetta cui improvvisamente il burattinaio avesse tirato i fili.
“Ti abbiamo ingannato, col toro da monta, Alcide!” Di colpo l’attenzione generale si concentrò sull’alleva-
tore che, con ancora il cappello in mano, sentì ghiacciarsi il sangue. “Io e Quarto… ti abbiamo spillato soldi per far montare la tua vacca dal suo toro spompato.”
La gente spostò all’unisono l’attenzione da lui ad Alcide… in attesa della reazione, come a teatro, o a un’assurda partita di tennis.
L’istinto m’indusse a controllare se Quarto, confinante di Giacomo e suo saltuario socio in affari, fosse in vista. Mi stupii di non vederlo tra il pubblico, lui che distava meno da quel luogo di molti dei presenti, attratti dalla curiosità. Immaginai che potesse essersi defilato, pronosticando la malaparata.
“Non crucciarti!”, tentai di rassicurarlo e di prevenire qualsiasi reazione da parte del contadino truffato, “avrai modo di scusarti personalmente con lui alla fine di questa faccenda!” Alcide restava rigido, col cappello in mano e un guizzo sulla mascella mal rasata che tradiva rabbia e imbarazzo sopiti a fatica. Il buon senso, però, lo induceva a tacere.
“Bene, Giacomo, ora arriva il dottor Sarti. Stiamo per venire a prenderti.”
“Il dottor Sarti…”, continuò il ferito, prendendo la palla al balzo, “… trecento lire ha voluto per certificare la guarigione del toro di Quarto che invece si era lesionato i testicoli cercando di saltare lo steccato.”
Sguardi attoniti attorno, borbottii indignati e altre persone che lasciavano lo spettacolo per riguadagnare la campagna.
“… ma la colpa è mia… mia è stata l’idea di falsificare il certificato per non perdere quella miniera d’oro… sono colpevole, Signore mio Dio… potrai mai perdonarmi…?” “Certo che ti perdona”, mi affrettai a rassicurarlo, “ma
ora tranquillizzati… dammi solo un momento…”
Decisi che non era più possibile procrastinare. Ora che avevo individuato i lati del campo minato mi sarei avvicinato cautamente, addentrandomi dalla parte in cui stava brucando la… “La capra”, sussurrai basito dalla sorpresa. L’animale non era più al suo posto, doveva essersi spostato mentre tutta l’attenzione era rivolta a Giacomo e ai bersagli delle sue malefatte. Girai lo sguardo e trovai l’animale fuori dal quadrilatero, sulla destra, a metà dell’erta dell’argine, mentre accettava ciuffi di trifoglio da Giannetto, il figlio ritardato di Renata Pesaresi, una vedova mantenuta dalla parrocchia di Viano, dopo la morte del marito partigiano.
“La capra è uscita”, ribadivo mentre, scivolando e mantenendo con le mani l’equilibrio sul terreno scosceso, tentavo di raggiungere il quadrupede miracolato.
“La capra… la capra è laggiù… da Giannetto…”, si udiva sussurrare tra gli astanti che, pian piano, afferravano il significato di quell’evento. Giacomo pareva assopito, faccia a terra, immobile, raggomitolato sul fianco. Raggiunsi la capra e la carezzai sul collo, come a sincerarmi della sua incolumità. Giannetto offriva trifoglio alle sue labbra prensili, ritraendo le dita poco prima che la lingua ruvida le lambisse.
“Da dove è passata?”, chiesi tra me, scrutando il terreno nella speranza di rintracciate qualche orma che mi mettesse sulla giusta direzione. “Giannetto?”, lo chiamai, concedendo qualche secondo affinché la sua labile attenzione abbandonasse la capra e si focalizzasse sul mio viso. Poco dopo due occhi acquosi e troppo grandi mi fissavano perplessi. I dodici anni anagrafici si riducevano ai sei del livello intellettivo, compromesso da una febbre maligna durante la prima infanzia. “Giannetto… hai attirato tu la capra?” Il ragazzino si limitò a confermare annuendo e mostrandomi un mazzetto di trifoglio dopo averlo strappato dal prato. A riprova la capra allungò il collo, socchiudendo le labbra su denti verdognoli da ruminante. “Hai visto il percorso che ha fatto per venire da te?”, Giannetto rimase muto, incerto sul senso della domanda. “Hai visto da dove è passata la capra?”, riformulai in modo elementare. Di nuovo annuì, indicando col dito il punto preciso da cui era uscita, poi piegandolo a destra, simulando l’angolo di una traiettoria. Prima che il ricordo sfumasse nel fluttuare scostante dei suoi pensieri, mi posizionai dove aveva indicato con tanta sicurezza.
“Qui…?”, domandai, voltandomi verso di lui, “nessun altro ha visto che percorso ha seguito la capra per uscire?”, domandai all’uditorio che, perplesso, mi scrutava a occhi sgranati. Nessuno si fece avanti, solo la vedova Pesaresi, madre del piccolo, azzardò: “Padre… non avrà intenzione d’inoltrarsi lì dentro seguendo le indicazioni di Giannetto?”
“Perché no!? Lui dice che ha visto il percorso.” “Giannetto a volte è più sveglio di quanto si creda…”,
tentò di rivalutarlo Renata, con cuore di mamma, “… ma è pur sempre un bambino ritardato… io non…”
“Lui dice che ha visto… vero Giannetto?”, mi sincerai nuovamente, forse per procrastinare la partenza. La sua conferma si perse nell’annuncio che il veterinario, dottor Sarti, era finalmente arrivato. Lo vidi caracollare giù dal costone, la figura corpulenta che rischiava continuamente di finire gambe all’aria. Portava un gilet di panno nero, su cui un solo bottone resisteva, eroico, a contenere la pancia prominente, su una camicia chiara imbrattata di schizzi di sangue bovino. Si equilibrava con la borsa dei ferri, più grande e tintinnante di quella del medico. La folta barba, grigia e riccia, bilanciava l’assenza di capelli sul cranio dalla fronte aggrottata, nella concentrazione della ripida discesa.
Passando accanto ad Alcide, inconsapevole delle rivelazioni fatte poco prima da Giacomo, fu afferrato per la spalla dall’allevatore, che fu quasi trascinato dall’abbrivio della pesante massa del veterinario. Il dottore girò su se stesso e fissò Alcide interrogativamente.
“Da questa parte dottore…”, chiamai, implorando Dio che non ne nascesse un alterco. Il fato o un residuo senso d’opportunità fece desistere Alcide dal dare seguito ai suoi propositi e lasciarono terminare al veterinario la discesa. “È morto?”, domandò giunto al mio fianco, guardando la figura immobile.
“No… ha parlato fino a poco fa… stavo giusto per raggiungerlo…”
“Conosce la via per arrivare da lui?”, chiese, asciugandosi il collo col fazzoletto delle dimensioni di un canovaccio.
“Ci guiderà lui”, confermai, indicando Giannetto, il cui sguardo stava tornando assente. Aveva ripreso l’attività precedente e il trifoglio passava dal prato, alle sue dita sudicie, allo stomaco della capra.
“Io vi seguo a distanza”, si affrettò ad affermare il dottore, “inutile saltare entrambi”, terminò inoppugnabilmente, serafico.
“Certo”, convenni con sarcasmo. Come dargli torto. Baciai il crocefisso estratto dal taschino della tonaca, che premetti sul cuore una volta riposto, poi schioccai le dita, richiamando l’attenzione del ragazzino e pregando la madre di allontanare l’animale, perché mantenesse la concentrazione. Addentratomi di tre passi mi voltai a guardarlo, cercando conferma sulla svolta a destra che stavo per eseguire.
Mi segnalò di proseguire dritto ancora qualche passo e avanzai un metro. Sollecitai il dottore a ricalcare le mie orme e lasciare una traccia con un bastone, da seguire al ritorno. Allorché Giannetto inarcò il polso, indicando la svolta, ruotai di 45 gradi e il piede che sollevai nel passo successivo mi parve di piombo. Quando lo posai, il silenzio attorno si era fatto perfetto. “Sono stato io a denunciare Savino”, riattaccò Giacomo, rianimandosi come un pupazzo a molla, “Savino Vacondio, per la storia del partigiano nascosto… sono stato io… oh, Signore perdonami!”
Il piede piombò sul terreno senza che alcun brivido di paura mi distogliesse dalla sorpresa della rivelazione. Conoscevo Savino, un buon diavolo di meccanico, la cui officina era un’inesauribile miniera di ricambi per ogni congegno meccanico del paese, dalle motociclette, alle caldaie, ai mezzi agricoli. E conoscevo Milo, il partigiano ferito che Savino aveva nascosto nella buca utilizzata per lavorare ai semiassi dei camion. Per due settimane era riuscito a sottrarlo ai rastrellamenti, dopo un agguato in cui due tedeschi erano rimasti sul terreno, crivellati dalla mitraglia della Brigata Garibaldi. Quando Milo si era presentato ferito alla sua officina, braccato e senza appoggi per lasciare il paese, lo aveva ficcato nella buca di due metri per tre, ci aveva parcheggiato sopra un rimorchio agricolo cui aveva tolto le ruote e che spostava con l’aiuto di un grosso cric ogni volta che doveva rifornirlo di cibo e acqua. In pochi eravamo a conoscenza del suo segreto. Oltre a me, informato da Savino stesso, lo sapeva il dottor Allegri, che medicava lo squarcio alla coscia di Milo ogni notte, alla luce della lampada a carburo, e forse qualche simpatizzante di provata fede antifascista. Persone di cui ci si poteva fidare ciecamente. Quindi la sorpresa per il tradimento, sovrastò anche il reciproco sospetto, quando la ronda di repubblicani arrivò all’alba nell’officina e a colpo sicuro scoperchiò l’antro buio, in cui Milo giaceva su un materasso, tra coperte infeltrite e cicche di sigarette; il pitale colmo d’urina notturna.
“Bastardo figlio di cagna!”, era la voce di Camillo, padre del partigiano, che assieme al figlio più piccolo stava sul costone vicino al fiume. Non mi sentii in animo d’intervenire per placare la rabbia con cui aveva appreso il nome del delatore su cui tante ipotesi erano circolate nei giorni seguenti le fucilazioni. “Nemmeno la morte posso augurarti… perché ormai è cosa fatta”, proseguì, irrigidito dal rinnovarsi del suo dolore, “spero invece che questa pagliacciata non ti salvi dal fuoco dell’inferno!”, terminò togliendosi il cappello. Savino era stato fucilato immediatamente, nel cortile dietro l’officina. Milo, portato al comando, era riapparso davanti al muro della caserma Zucchi, tanto pesto da fargli dimenticare il proiettile che ancora gli mordeva le carni della gamba. Fu finito in ginocchio, da un colpo alla tempia, le mani legate dietro la schiena e lasciato esposto due giorni, prima che il padre potesse ritirarne il cadavere.
“Lascia crepare da solo quel porco, prete!”, gridò una voce anonima dalla folla sul terrapieno di fronte.
“Fu Matilde a rivelarmelo”, si affrettò a specificare Giacomo nel suo delirio confessionale, assillato dal terrore che quegli auspici di dannazione avevano rinfocolato, “Matilde Degli Esposti… mi confessò che suo zio stava nascondendo un partigiano ferito, credo per darmi prova della fiducia che nutriva in me”, di nuovo piangeva e si agitava, cercando di levare la testa per scrutare gli astanti, quasi invocando un dialogo che nessuno avrebbe sostenuto. Intanto avevo ripreso l’incerto cammino per raggiungerlo, alternando l’attenzione tra le vaghe indicazioni di Giannetto e il dottor Sarti, che, controvoglia, aveva cominciato a poggiare i piedi sulle impronte lasciate dai miei.
“Oddio… mi credeva un fervente antifascista e voleva convincermi delle idee politiche della sua famiglia.”
Intanto Camillo cercava con lo sguardo il suo amico Alfonso che fortunatamente non era accorso. Il padre di Matilde era rimasto al podere, rifiutandosi di assistere allo spettacolo agghiacciante di un uomo dilaniato, senza sospettare che, apprendere come sua figlia fosse causa della morte del fratello Savino e del figlio del suo compagno d’infanzia, sarebbe stato uno strazio ancora maggiore.
“Perché tutto questo, Signore?”, sussurravo, mentre procedevo cautamente, cercando d’interpretare i segnali che Giannetto m’inviava tramite un ditino sempre più incerto e tremante. Era stanco, spossato dall’inusuale concentrazione e da quell’attenzione non richiesta. “Perché tutto questo strazio?”
Mi sovvenne la frase del vangelo di Marco: “Signore allontana da me questo calice…”, che presi a ripetere incessantemente, come un rosario, per non lasciarmi sopraffare. Il veterinario a ogni passo tendeva a ritrarre il busto più lontano possibile e si decideva ad avanzare solo a grande distanza da me.
“Tra poco ci siamo”, continuavo a rassicurare Giacomo, su cui avevo sospeso ogni giudizio morale, concentrandomi esclusivamente sulla sua volontà di redenzione.
“Mi avevano assicurato che per l’informazione avrebbero chiuso un occhio sui miei traffici con gli inglesi…”
“Riposati un momento, adesso”, lo sollecitai, “tra poco sarò da te e ne parleremo a quattr’occhi…”“Oh, Signore Gesù…”, fu la sua risposta ma dopo un sospiro si rimise tranquillo, con la guancia appoggiata a terra.
Giunto a non più di cinque metri da lui, fui fermato dalla voce sottile di Giannetto che m’inchiodò con la gamba sollevata. “Alt!”
M’immobilizzai tra il silenzio generale e mi rivolsi a lui con occhi imploranti. Già mi pareva impensabile che quella bizzarra pensata mi avesse condotto fin lì. Non volevo considerare l’idea del tragico fallimento. Osservai il ragazzino rosicchiarsi l’unghia del pollice, prima di guidare a mano aperta verso sinistra i miei ultimi passi. Sudavo abbondantemente calcando lo scarpone nella terra friabile ma pallottole di sterco di capra tra i fili d’erba tranciati dai denti del ruminante, mi rassicurarono circa la giusta direzione. Segnalai al veterinario di farsi sotto e raggiungermi velocemente, non volevo vedermela da solo col ferito, una volta raggiunto. Al segnale di Giannetto, che frustava l’aria con quattro dita accostate incitandomi a proseguire dritto fino alla meta, sciolsi ogni riserva e coprii di slancio gli ultimi metri, seguito dal dottore che, rinfrancato, stava facendosi fiducioso riguardo l’esito della spedizione. Raggiungemmo il Nanni da sud mentre, raggomitolato sul fianco, ci volgeva le spalle, nascondendo il viso nella polvere.
“Siamo qui, Giacomo… siamo qui…”, sussurrai con apprensione e liberazione, mentre il dottor Sarti mi raggiungeva. Avvertita la nostra presenza, Giacomo si riscosse con uno di quei sobbalzi che parevano strapparlo al sopimento della morte.
Ruotò la testa e le spalle e mi accorsi della luce folle che accendeva lo sguardo smarrito. Un ghigno animalesco gli deformava il viso in una parodia di sorriso. Un teschio fornito di bulbi oculari impazziti. Al mio tendere il braccio verso di lui, tentò di girarsi dalla nostra parte, allungando entrambe le mani, come un bambino che cerchi rifugio nella stretta del genitore. In questa torsione il busto si sollevò da terra quel tanto da permettere alla pressione del sangue e degli organi interni di vincere la precaria resistenza che li tratteneva al loro posto. Un orrendo rumore liquido, che mi parve assordante, ma che non fu più avvertibile di quello di un quarto di bue sollevato dal bancone del macellaio, diede inizio alla fuoriuscita di sangue, liquidi e frattaglie dallo squarcio che dalla gamba mancante attraversava l’inguine. La sua sorpresa non fu minore della nostra. Tentò per qualche secondo di trattenere all’interno ciò che non ci voleva restare, sussurrando: “Oh, Dio mio…”, come una massaia intenta a radunare nella conca del grembiule una quantità eccessiva di uova che sgusciano fuori per infrangersi a terra. Poi lasciò che tutto seguisse il suo corso, rivolgendo uno sguardo supplichevole verso gli sprovveduti che avevano rischiato la vita per raggiungerlo e che avrebbero nuovamente affrontato le mine per allontanarsi da quell’atrocità. Perse conoscenza in un attimo, arrovesciando gli occhi e la testa all’indietro, mentre il cuore pompava fuori l’ultimo sangue come una fontana.
“Ego te absolvo…”, ripetei, rifugiandomi nelle formule ecclesiastiche che sempre riuscivano a tranquillarmi. Mi aspettavo qualche commento dalla platea, che non arrivò. Il veterinario toccò la vena al lato del collo, premendo due dita, scuotendo la testa con rassegnazione. Mi segnai, baciai il crocefisso che di nuovo riposi nella tasca interna. Sedemmo a terra, io e il dottore, appena discosti da quel cumulo di carne martoriata e interiora esposte in un modo che definirei blasfemo. Alcuni stavano lasciando gli argini da cui avevano seguito il macabro spettacolo, pronti a tornare in paese col fardello di rivelazioni da sussurrare, segreti da indagare, dubbi da fugare o a cui trovare conferma. Quando un brusio richiamò la nostra attenzione verso la collinetta dove un drappello di nuovi arrivati veniva ragguagliato sull’accaduto.
“Macché campo minato… ma che sciocchezze sono mai queste…”
La figura del federale di zona, Gildo Schiavone, si stagliava massiccia, in stivali, fez e divisa bruna, tra due accompagnatori in borghese, che non riconobbi. Guardava verso di noi e prestava orecchio a due paesani che terminavano il resoconto con ampi cenni, a indicare i paletti che ormai tutti identificavano come i confini della zona pericolosa.
“È stato smantellato due mesi or sono, dopo che i nuovi posti di guardia sono stati piazzati sull’argine”, la sua voce impostata giungeva a noi chiara e intellegibile, nell’aria morta del pomeriggio. “Vi pare che si lasci un campo minato così… senza segnalazioni.” Poiché il cadavere di Giacomo e la sua gamba amputata stavano a testimoniare quanto successo, Gildo dovette convenire che un disguido doveva esserci stato. “Una dimenticanza… un ordigno sfuggito allo sminamento.”
Renata Pesaresi stava portandosi via Giannetto che, allontanandosi, continuava a voltarsi verso la capra, tendendo la mano e caracollando dietro la madre che lo conduceva lungo il sentiero sull’argine.
“Quelle due brave persone…”, assicurava Gildo, alzando la voce per essere udito, “…possono ritornare tranquillamente… non c’è più alcun pericolo!”
Cercai gli occhi del dottor Sarti, che a sua volta guardava il cadavere, attorno al quale mosche e formiche stavano giungendo a frotte. Non sapevo se davvero una mina dimenticata avesse causato quella sciagura, dando la stura a una ridda di rivelazioni che avrebbero innescato una serie di sospetti e ripicche, forse più letali della stessa esplosione; oppure se ciò cui quel pomeriggio ero stato sottoposto, senza in fondo correre nessun reale pericolo, fosse stato soltanto una prova, per testare il mio coraggio, la mia disponibilità verso il prossimo.
“Venite… venite…”, incitava Gildo, mentre due inservienti del cimitero, arrivati con un carretto, scaricavano una barella per recuperare i resti di Giacomo. Con quello sguardo ci capimmo al volo. Avremmo ripercorso la stessa via seguita all’andata, verso il terrapieno, seguendo attentamente i segni lasciati a terra, in barba alla sicurezza dei necrofori che tagliarono il campo in linea retta. Il dottor Sarti taceva, persuaso, come il sottoscritto, che ciò che era stato profanato quel giorno, non fosse il corpo del povero Giacomo, ma qualcosa di più privato e inaccessibile, come i segreti di un essere umano. Vedendomi stremato e amareggiato raccattò la sua borsa e ripartì, sguardo a terra. “Seguitemi, padre…”, sussurrò, “… stavolta vado avanti io.”
Biografia: Piero Malagoli
Nato nel 1964 e cresciuto a Modena, coltiva da anni la passione per l’arte contemporanea e la letteratura (in modo particolare quella americana). Da sempre affascinato dal genere del racconto, ha partecipato a svariati concorsi nazionali, vincendone alcuni tra i più accreditati.
Ha pubblicato i suoi primi due romanzi con la Casa Editrice il Fiorino di Modena (Iena nel 2011 e 1977 nel 2012) e in seguito alla vittoria del Concorso Nazionale Parole nel Vento ha pubblicato il romanzo Controesodo in A14 con la Casa Editrice Rubbettino (Cz) nel dicembre 2014.
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