Premio Letterario Internazionale Merano-Europa – Decima Edizione – 2013
Narrativa
Primo Premio
Marco Antonelli
Arco di Trento
All’uscita dalla prima galleria il sole picchia negli occhi come una lama incandescente. È il sole di fine novembre, inaspettato e straordinariamente luminoso. L’aria fuori dall’automobile è fredda, ma solo perché è mattina e la strada è ancora in gran parte all’ombra. C’è vento, è per questo che tutto appare così limpido e vicino. Il vento falsa le distanze, l’ho imparato da piccolo.
Guido senza fretta, sono in anticipo di un’ora, almeno. Di questa stagione è meglio partire presto. La nebbia è il mio nemico, da sempre. E non è che mi piaccia poi così tanto combatterlo. Preferisco evitarlo, partire presto e lasciarmelo alle spalle guidando piano. Ma questa mattina non ce n’era, di nebbia. Troppo vento. Meglio così.
La strada è splendida, adesso. Appena fuori da Rovereto, sul lago di Garda. È la provinciale che lo costeggia sul lato destro. Da qui l’acqua sembra oro fuso e le montagne altissime. In realtà l’acqua è stagnante e le montagne sono poco più di colline. Ma non è questo quello che vedo. Io percepisco solo una specie di estate senza confusione, sudore e aria condizionata che appanna i vetri. Un gran bel vedere.
Poca gente per le strade. È domenica e non è tempo di vacanze. Quando mi infilo nelle strette strade di Riva del Garda non incrocio che poche macchine, un turista tedesco in bicicletta e un vigile che mi fa segno di passare, anche se non c’è nessuno dall’altra parte. Abbasso il finestrino. Respiro l’aria fredda, mi liscio i capelli con la mano e mi tocco la pelle del viso. Scivola via sulla barba fatta meno di due ore prima. Rallento, giro a destra. Mi guardo intorno fino a quando non vedo l’indicazione per Arco di Trento. Perfetto.
Ci arrivo in pochi minuti. Una salita ripida ed un paio di tornanti. Poi una breve discesa e un enorme parcheggio. In questo momento è quasi vuoto. Lo percorro avanti e indietro un paio di volte prima di decidermi. Mi intimidiscono i posteggi vuoti. Va sempre a finire che giro per cinque minuti prima di abbandonare la macchina a cavallo dei segnaposto e nemmeno parallela alle strisce.
Alla fine parcheggio vicino all’ingresso. Mi guardo nello specchietto. Mi passo di nuovo una mano fra i capelli, mi infilo il giubbotto e scendo. Respiro a bocca aperta. È una giornata bellissima.
L’edificio davanti a me sembra un vecchio castello. Di quelli veri, fatti per proteggere la gente, con le mura alte, senza appigli e una grande e solida porta di legno al centro. Inviolabile. Niente torri svettanti, archi rampanti o merletti. Quella è roba per turisti.
È grigio scuro, tranne l’ala ovest che è dipinta in un assurdo colore rosa, come fosse di marmo prezioso, appena estratto dalle cave e sabbiato con riguardo. L’erba è curata, i fiori invernali perfettamente allineati e la siepe tagliata di fresco. C’è un silenzio quasi perfetto.
Cammino lentamente. I miei passi fanno scricchiolare il leggero strato di ghiaccio che ricopre l’erba. Il fiato si condensa in una nuvoletta leggera. L’ingresso è a pochi metri da me. Imponente, maestoso. C’è una bandiera, sopra la porta. Ci sono tende alle finestre, appena dietro le inferriate. Dentro intravedo un altro giardino e una fontana ghiacciata per metà. Ci sono panchine e nastri colorati appesi agli alberi. Il mio passo si fa esitante. In realtà sono un po’ emozionato. È un bel posto. Mi piacerebbe scattare qualche foto e passarci una mezza giornata di vacanza, se non fosse un ospedale psichiatrico.
Adesso li chiamano in altro modo. Case di riposo per disturbi mentali, sanatori. Non so, roba del genere. Ma alla fine sono sempre la stessa cosa. Magari con un po’ di umanità in più, quando va bene. A volte con un bel giardino e una fontana. Ma non c’è differenza per chi ci sta dentro. Il giardino lo vedono un paio di ore al giorno e la fontana la mettono in funzione solo il sabato o la domenica, quando arrivano i visitatori. Mica cambia molto per loro.
Salgo in fretta verso gli uffici. La strada la conosco. Dopo la seconda porta c’è una specie di grande salone. In fondo, seduto su una poltrona rivolta verso la finestra, mi aspetta un medico. Sta leggendo qualcosa. Rallento il passo, in attesa che sollevi la testa. Guardo quello che ha in mano. Quando mi accorgo che è solo la Gazzetta dello Sport mi avvicino più rumorosamente. Lui alza gli occhi. Non mi riconosce. Io faccio per dire il mio nome, ma lui mi interrompe alzando la mano. Mi sorride. Ha capito chi sono.
– “Buongiorno. È arrivato presto.”
– “Buongiorno a lei. Avevo paura della nebbia. Posso andare o devo aspettare qui?”
Lui mi guarda come se avessi fatto una domanda senza senso. Ripiega il giornale sulle ginocchia. Sorride di nuovo.
– “No, non è necessario. La stanno aspettando. Credo da questa mattina all’alba.”
– “…”
– “Scherzavo. La conosce la strada, vero?”
– “Sì.”
– “Ci vediamo più tardi. Mi raccomando, stia attento.”
– “Certo.”
– “Arrivederci.”
– “Dottore?”
– “Si?”
– “Come va? Davvero, dottore, come vanno le cose?”
– “Il solito. Stia tranquillo. E non è una brutta notizia, mi creda.”
Lo saluto con la mano, gli giro le spalle e me ne vado. Cammino lungo i corridoi. Non guardo da nessuna parte. Non voglio vedere niente. Penso sempre che non racconterò mai questa storia e quindi non voglio che mi rimanga impresso nulla. E poi non c’è nulla da vedere qui.
Non prendo l’ascensore. Sono solo due piani. Li faccio lentamente, senza far rumore. Sopra c’è un ultimo corridoio con una grande porta a vetri. Quando la apro, fa un rumore profondo. Come un lamento, ma senza alcun dolore. Come se fosse rassegnata da sempre. Sulla destra ci sono alcune sedie di plastica. Sulla prima, seduta con la schiena eretta e le gambe strette, mi aspetta mia madre.
Ha lo sguardo fisso, il collo rigido e le mani appoggiate sulle ginocchia. Indossa una gonna di lana e una camicia pesante stirata di fresco. Chissà come avrà fatto. Qui non permettono i ferri da stiro. Niente roba di metallo. Nemmeno forchette, coltelli, forbicine o spille. Nemmeno le cinture, a dire il vero. Eppure la sua camicia è senza una piega. L’avrà chiesto a qualche infermiera. Bisogna che mi ricordi di ringraziarla, prima di andare via.
Ha i capelli radi, pettinati indietro. Sono rosso cupo, ma sbiancati dalla cute candida che si intravede fra uno e l’altro. L’effetto è quello di una capigliatura rosa opaco. Come sangue diluito. Tiene le labbra strette e i piedi uniti. Ha una borsetta appoggiata a terra. Non contiene nulla se non un fazzoletto ed un paio di fogli dell’ospedale. La terapia e l’indirizzo dove riportarla. Nel caso che scappi.
– “Ciao mamma.”
– “Sei in ritardo, sai?”
– “No mamma, sei tu che ti sei preparata troppo presto.”
– “…”
– “Come stai?”
– “Bene. Mi sento bene. Non riesco più a leggere, sai? Mi va insieme tutta la vista. Tutte le lettere insieme. Cosa ci posso fare? Pazienza. Ma sto bene. E tu?”
– “Io sto sempre bene, lo sai. Metto su pancia, ma sto bene.”
– “Non sei mica grasso.”
– “Mi devi guardare per dirlo, mamma.”
– “Un attimo. Il dottore dice che se ti guardo subito mi emoziono troppo. Prendi la borsa che è pesante.”
Mi avvicino e mi metto davanti a lei. Ha gli occhi infossati e le rughe profonde. Tatuaggi di pelle raggrinzita e stanca. Vallate impervie scavate nella carne viva. Costruite con il dolore. Quello vero. Quello che ti strizza lo stomaco e ti piega le gambe. Quello che urli dal male e maledici dio e chiunque altro abbia avuto l’idea di metterti al mondo. Quello che ti devasta il corpo e il cervello. Quello che, alla fine, l’ha portata qui.
Finalmente mi guarda. La bocca si spezza in un sorriso. Un attimo dopo le frana tutta la costruzione del viso. Sgrana gli occhi, tira le labbra screpolate, butta indietro la testa. Piange. Ma non come una bambina. Come una vecchia. Piange senza un rumore. E intanto fa una smorfia grottesca con il viso. Piange e tenta di sorridere. Prova a nasconderlo in qualche modo. Quando sente le lacrime sulle labbra, piange ancora più forte. Poi di colpo smette. Si ricompone. Tira su con il naso. “Scusa” dice.
L’aiuto ad alzarsi. Non le dico nulla. Le prendo la borsa e le porgo il braccio. Lei si appoggia. Ha le scarpe basse. Non so perché, ma qui non fanno tenere quelle con il tacco. Chissà di cosa hanno paura. Trascina un po’ i piedi, ma nemmeno tanto. Se ne sta con il busto eretto e mi arriva ugualmente sotto il mento. Peserà quarantacinque chili, non di più, eppure non è fragile. Ha le ossa grosse. È solo che alle ossa non è attaccato più nulla, se non la pelle.
Le accarezzo la testa e le guardo il viso. Ha una striscia nera sul lato dell’occhio. Le arriva fino allo zigomo. Ci sorridiamo.
– “Sei truccata, mamma.”
– “Sì. Ho chiesto alla parrucchiera. Non si potrebbe, ma poi me l’ha fatto lo stesso.”
– “Perbacco! Esco con una donna truccata. E più vecchia di me, per giunta. Chissà cosa dirà la gente.”
– “Scemo.”
– “Il paese è piccolo, la gente mormora.”
– “Piantala.” Lei ride. Ride.
– “E poi magari lo dicono alla mia fidanzata. Succede un casino. Mi fa fuori. Fatto di sangue ad Arco di Trento. Giovane ragazzo ucciso dalla fidanzata. Lo aveva scoperto mentre la tradiva con signora anziana truccata in modo vistoso…”
– “Uffa, smettila. Fai sempre il buffone.”
– “Mica vero, mamma. Sono serissimo.”
– “Sì, vabbè.”
Ridiamo insieme. Ora i suoi occhi sono asciutti. Perfetto.
Le pulisco il viso con un fazzoletto di carta. Lei sta ferma e mi lascia fare. È abituata a farsi mettere le mani sul viso, gli aghi nelle braccia e oggetti metallici in gola. Le mie dita le devono sembrare delicate, al confronto.
Saluto i medici e poi gli infermieri. Mi fanno firmare una mezza dozzina di fogli prima di uscire. E poi non è ancora finita. Mi danno un pacchetto con dentro delle pillole, un flacone di gocce e una siringa già pronta. La prima volta che l’ho portata fuori mi hanno insegnato ad usarla. Mi facevano provare su una patata. Un colpo secco, schiacciare lo stantuffo e poi tirarla fuori immediatamente. Prima che le contrazioni spezzino l’ago quando è ancora nella carne. Io bucavo patate una dopo l’altra e loro mi correggevano. Le bucavo fino a renderle fradice e spappolate. Loro me ne davano delle altre e mi facevano provare ancora, perché deve diventare automatico altrimenti ti manca il coraggio di farlo. E se perdi troppo tempo, poi non ci riesci più.
Ora fa più caldo. L’erba è bagnata e il sole meno luminoso. Mia madre respira a fondo. Allarga le mani e le spinge vero il cielo. Poi riprende a camminare. Saluta l’ultimo infermiere fuori dal portone di legno. “Ci vediamo alle tre.” Come se salutasse un collega di ufficio. Con quel tono che dice che sì, d’accordo, ci vediamo alle tre, ma magari tardo e arrivo alle quattro e poi, se proprio mi gira, mi faccio anche un giorno di ferie. Magari anche una settimana. “Alle tre, ok?” E fa una faccia sbarazzina. Si volta verso di me e mi fa l’occhiolino. Io sorrido. Per la prima volta, da questa mattina, riconosco il vero volto di mia madre.
Saliamo in macchina. Controllo l’ora di rientro che hanno scritto sul permesso. Non si può scherzare. Se ritardiamo oltre i venti minuti avvisano la polizia. A meno che non chiami al telefono la segreteria, sempre che riesca a trovarne uno in tempo. I cellulari non sono ancora stati inventati. Ci sono ancora i telefoni a gettoni. Quelli color bronzo oppure i primi rossi e squadrati, che accettano anche le monete o le tessere. Non è facile trovare un telefono pubblico che funzioni durante la stagione invernale. Se si ritarda oltre un’ora addio permessi per un mese. Ci sono delle regole, conviene rispettarle.
– “Bella macchina. È nuova, vero? Ci vai spesso in macchina, no?”
– “L’avevi già vista l’altra volta, mamma, è la stessa. E poi lo sai che ci vivo in macchina.”
– “Dove sei stato questa settimana?”
– “A Bologna. Torino e giovedì a Firenze.”
– “Firenze? Saranno cinquecento chilometri.”
Allarga le mani, si sbraccia, stende le dita, come per misurare la distanza con un metro immaginario.
– “Sono solo trecento.”
– “E cosa fai per trecento chilometri?”
– “Niente. Ascolto la musica. Penso.”
– “Le scrivi sempre le storie?”
– “Sì.”
E poi se ne sta zitta. Ed io vorrei dirle che certo che le scrivo le storie, esattamente come le scriveva lei. Che le ho scoperte, le sue pagine. Scritte fitte fitte, con una matita, e nascoste nel cassetto della biancheria intima. E vorrei dirle che mi piacevano, specialmente quella della piscina, quando lei guardava i bambini e s’immaginava come sarebbe stato suo figlio. E poi quella dove raccontava della gita al Ticino. Quando si nascondeva dietro la macchina con un uomo. Ed io mi sono sempre chiesto se fosse mio padre quell’uomo. E vorrei dirle ancora che razza di sensazione fastidiosa eppure emozionante avevo provato. E di come mi piaceva quando usava le frasi brevi. Non più di otto o nove parole per volta. E di come le sue storie finivano senza un vero finale. Come finiscono le storie vere. Senza un prima e senza un poi. Alla fine sto zitto. Le indico il lago e sorrido. “Andiamo che è tardi”.
Faccio le curve piano, scendendo verso il paese. So che le da fastidio. È per via delle pillole. Ha lo stomaco delicato, adesso. Intanto guardiamo fuori. Le rocce in mezzo all’erba, l’increspatura sull’acqua, i tetti delle case. Qualsiasi cosa. Io provo a guardare con i suoi occhi. Sono famelici e avidi. Occhi che sanno che poi, per quindici giorni, non vedranno altro che muri ed un pezzo di giardino. Magari lo zampillare di una fontana, ma solo di domenica.
Arriviamo in paese che sono quasi le undici. Parcheggio la macchina di fronte al lago. Ci sono alcune barche a vela. Forse una gara. Scendiamo e ci sediamo su una panchina a guardarle. Lei parla poco. Ogni tanto abbassa gli occhi e segue il filo di un suo pensiero privato. Poi torna a tormentare il fazzoletto con le mani. Eppure ha l’aria serena. Gli occhi si sono fatti limpidi e il riflesso dell’acqua li fa sembrare quasi verdi. Il viso è più disteso. La tensione la sta abbandonando. Lo so che ogni volta che arrivo è come una prova per lei. Non deve piangere, non deve fare smorfie di dolore, deve rispondere a tono, deve capire quello che le dico, non deve confondersi, ricordare tutto, non deve sporcarsi quando mangia, non deve lamentarsi, non mi deve fare domande stupide ne’ dirmi nulla che mi possa infastidire. Per lei è così ed io non posso farci nulla. Posso solo fare in modo che tutto appaia naturale. Che il mio viso sia quello di sempre, che i miei gesti siano quelli che lei conosce. Me lo hanno spiegato, in ospedale. Il trucco sta tutto nella normalità. Niente che sia al fuori di quella. Nei gesti e nelle parole. Nel tono e negli sguardi. Ma mica è facile quando vedi il volto scarnificato di tua madre e le tieni una mano che trema in continuazione.
– “Vuoi mangiare?”
– “Di già?”
– “Sai cosa pensavo? Ce ne andiamo sull’altra riva. Verso Brescia. Ci facciamo la gardesana e troviamo un posticino da cui si vede il lago. Lontano da qui. Vuoi?”
– “Fino a Brescia.”
– “No, non fino a Brescia, ma lontano da qui.”
Lei fa le spallucce. Poi mi sorride, come sapeva sorridere lei, una volta. Ed io so che quando torneremo, questo pomeriggio, glielo racconterò al dottore. Perché questo sì che è un progresso. Ma non solo perché sorride. È perché ha capito cosa le volevo dire. Lontano di qui significa andare in un posto dove nessuno sappia da dove arriviamo. Dove, appena entri nel ristorante, non capiscono subito che lei è una vecchia che sta al manicomio di Arco di Trento ed io il figlio che la viene a trovare ogni quindici giorni. Un posto dove magari non ti notano neppure. Oppure dove la cameriera dice alla cuoca di metterci più condimento perché quella signora lì, al tavolo davanti al lago, mi sa che è malata da tanto è magra. Ma malata nel fisico, non nella testa. Sta male, ma è roba che si vede, non nascosta in una testa che nessuno riuscirà mai a guardarci dentro. Ecco, lei ha capito tutto questo e mi ha sorriso. Un sorriso complice. Non da madre e nemmeno da malata. Un sorriso da donna. Quasi un sorriso da amante. Io e te, in un posto lontano. Da soli. Ecco.
Risaliamo in macchina. Il vento si è placato. Accendo lo stereo. Peter Gabriel. La cassetta me l’ha regalata lei qualche anno prima. Sapeva che era il mio musicista preferito. Credo avesse imparato Biko a memoria, anche senza volerlo. Così quando è uscito il quarto disco, quello con Shock the monkey e The family and the fishing net, mi ha battuto sul tempo e me l’ha comprato. Non credo che questa musica le piaccia realmente, ma le fa piacere che io abbia scelto proprio queste canzoni oggi.
La strada è più dolce, sul lato ovest. Poche curve, piccoli paesi, uno dietro l’altro. Pochissima gente. Giudo lentamente e mi godo questa atmosfera da fine secolo. Stiamo in silenzio. Ogni tanto le tocco il braccio e le indico qualcosa. Lei annuisce, ma quasi sempre ha gli occhi chiusi. Ormai è mezzogiorno.
Dopo una trentina di chilometri le dico di cercare un posto che le piaccia. Vetrata sul lago, senza camionisti e possibilmente aperto. Lei me ne indica subito uno. Sulla sinistra, appena rialzato rispetto alla strada. Ha anche il parcheggio. Ci sono una mezza dozzina di macchine. Quasi tutte targate Brescia o Trento. Gente del posto, insomma. Butto un occhio ai prezzi scritti con un gesso giallo su una grande lavagna appesa fuori dall’ingresso. È perfetto. Scendiamo. Andiamo fino alla sponda del lago. C’è una specie di staccionata. Ci appoggiamo con le braccia e guardiamo l’acqua ferma. Mia madre mi prende la mano e la accarezza. Non dice nulla. La accarezza e basta. Poi mi fa segno di andare dentro. Ha freddo. E poi è tardi.
Nel ristorante l’atmosfera è calda e familiare. C’è profumo di legna bruciata, anche se non si vede alcun camino. Scegliamo un tavolo in fondo, proprio vicino alla grande vetrata. Non c’è nessuno lì perché ci batte il sole. Ma noi vogliamo vedere il lago e ci va bene così. La faccio sedere in modo che dia le spalle alla sala. Se si sporca mentre mangia, non la vedrà nessuno.
– “Cosa vuoi mangiare?”
– “Il pesce. Così è morbido”
– “E di primo?”
– “Non so, magari la pasta. Con il pesto.”
– “Sì, il pesto sul lago di Garda. Ma dai… Prendi una minestra che poi va via il sole e fa freddo.”
– “La minestra la mangio tutti i giorni.”
Lo dice sbuffando. Ha uno sguardo severo, come quello di una madre che deve sgridare un figlio impertinente. Io le offro il mio miglior sorriso.
– “Vuoi il vino?”
– “Non posso.”
– “Poco poco. Ci sporchi l’acqua. Non ti fa male.”
– “Non posso. Ci sono delle regole.”
– “Va bene. Acqua minerale. Gassata?”
– “Sì, gassata. Oggi si trasgredisce. Acqua gassata. Sciambola!”
Ridiamo. Sciambola. Non sentivo quella parola da un pezzo. Credo che lei sia l’unica persona che conosco che la usi ancora. Lei. Mia madre.
Prima che arrivi il cameriere le scelgo le cose più morbide che riesco a trovare nella lista. Intanto le guardo la bocca. Non le sono rimasti molti denti e quelli finti sono caduti quasi tutti anche loro, compreso il ponte che aveva davanti. È per via delle gengive che si ritirano, mi hanno detto. Non ci si può fare niente. Dovrebbe mettere un altro impianto, ma lei non può essere tagliata in bocca. Non può essere tagliata da nessuna parte. Ha il sangue troppo fluido e l’emorragia non si fermerebbe, perché prende degli anticoagulanti. Li prende tutti i giorni, da quando ha fatto le operazioni al cuore. Bisognerebbe fare un vero e proprio intervento chirurgico, in sala operatoria. Ma nelle sue condizioni è troppo rischioso. Niente da fare. E così mangia pasta scotta e omogeneizzati tutti i giorni.
– “Com’è la signora nuova che sta nella tua stanza?”
– “Oh, è vecchia. Ha più di ottant’anni. Ma è buona. Ha un figlio che vive in Germania. Ha detto che non lo vede mai. Mi sembra sia vedova. Non so. Non parla quasi mai.”
– “Ti lascia dormire?”
– “Sì, insomma. Va meglio, comunque.”
– “E Cristina come sta?”
Cristina è una ragazza di ventitré anni. È stata ricoverata nella sua stessa camera per qualche settimana. Era epilettica, credo. Non parlava mai se non quando si metteva ad urlare. Allora la legavano al letto, con delle cinghie di cuoio. Era pericolosa, soprattutto per se stessa. Una volta si è fracassata la faccia contro il muro. Così, da sola. Il naso spezzato, i denti rotti, ventidue punti sulla fronte. Da allora le hanno messo un casco in testa. Di quelli da football americano, quelli che proteggono anche la mascella. Un paio di giorni dopo l’hanno spostata in un altro reparto, perché proprio non ci poteva stare con mia madre. Era bella, Cristina, ma aveva due occhi troppo grandi, sempre spalancati. Uno sguardo inquieto, terrorizzato. Ci vedevi la sua sofferenza. Ci vedevi il fatto che lei capiva tutto di quello che le stava succedendo. Come se guardasse un film. Solo che la protagonista era lei. E il dolore era vero. Erano un abisso, quegli occhi. Mica ci si poteva guardare dentro troppo a lungo. Si rischiava di caderci dentro e non uscirne più.
– “Sta meglio. È più tranquilla. Mi hanno detto che le hanno tolto il casco.”
– “Il casco. Robe da matti. Te lo ricordi?”
Ridiamo di nuovo, perché non abbiamo paura di ridere di questo.
– “Come ti trattano i dottori?”
– “Bene, bene.”
– “Bene? Sei sicura, sono gentili?”
– “Sì, ma con me è facile, sai? Io non mi difendo neanche più.”
– “…”
– “…”
– “Mangia, che si raffredda.”
Ecco, in quel preciso momento capisco che quello che mi porterò a casa oggi, e che mi rimarrà dentro per i prossimi anni, sarà tutto in quello sguardo e in quelle parole. Un mucchietto d’ossa che non si difendono neanche più. Che non hanno più voglia di reagire. Che sono in attesa. E non so nemmeno di cosa. Di nulla, probabilmente. Forse del ritmo ossessivo ed ipnotico scandito dalle due settimane, quando arrivo io. Ma non sono certo nemmeno di quello. “Io non mi difendo neanche più”. È così che sta vivendo lo scorrere del suo tempo. Allora, non so nemmeno perché, mi viene in mente come doveva essere il suo viso in preda ai dolori del parto. Quando la sua schiena s’inarcava e le sue mani artigliavano le sbarre del letto. Quando offriva il suo dolore alla mia vita. Mi chiedo se l’espressione fosse la stessa che ha oggi. O se la giustificazione al dolore le rendesse la smorfia più dolce. Ma poi abbasso lo sguardo e lascio perdere. Riprendo a masticare, altrimenti si raffredda anche il mio cibo.
Mentre mangiamo torno a guardarla. Ha la schiena rigida, come sempre, e il tovagliolo nella mano sinistra. Si pulisce le labbra dopo ogni boccone. Le mani tremano leggermente. Ogni tanto le scivola qualcosa dalla bocca. È solo saliva. Qualche volta un pezzetto di pesce. Ma di quelli se ne accorge e si pulisce subito.
– “Mi versi dell’acqua? Devo prendere le pillole.”
– “Ti ricordi quali devi prendere? Le hai portate tutte?”
– “Sì, sono nella borsetta.”
Estrae una piccola scatola di plastica bianca. Prende due pillole rosa e le inghiotte. Poi una capsula colorata. Sembra assurdamente allegra, come una caramella. Mangia un pezzo di pane e se la infila in bocca. Ci mette un po’ a deglutire. Alza lo sguardo. Mi sorride. Io le faccio le solite domande su quante pillole deve prendere e su come deve essere difficile ricordarsi di tutte. Lei sorride di nuovo. Poi ne prende un’altra. Grande, bianca. Ha le dimensioni di un pollice. Ma il mio, non il suo che è piccolo come quello di una bambina. La mette dentro il tovagliolo e poi ci batte sopra con il manico del coltello. Alla fine si bagna il dito con la saliva e raccoglie la polvere. La infila sotto la lingua. “È amara” mi dice. Riprendiamo a mangiare.
– “Parlami, adesso. Raccontami del tuo lavoro.”
È il nostro piccolo gioco, quello. Me lo aspettavo, quindi sono preparato. Mi asciugo la bocca. Bevo. Congiungo le mani come in segno di preghiera e le avvicino alla fronte. Poi comincio a parlarle di quello che faccio, del mio lavoro, di come lo affronto, di come lo vivo. Usando un linguaggio volutamente difficile, complicato, tecnico. Un gergo scientifico, da esperti. E lei se sta lì, affascinata. Non capisce quasi nulla di quello che le dico, eppure non perde una parola. Io racconto, descrivo, spiego. Ogni tanto favoleggio, mischio verità impossibili a bugie verosimili. Non parlo quasi mai di me, ma di quello che faccio e di come lo faccio. Di come lo realizzo. Di quali strumenti uso. Cosa ci sta dietro, insomma. È come quando ero piccolo. Otto, nove anni. Allora avevo il permesso di andare nel letto matrimoniale (il lettone, dicevo allora) solo una volta la settimana. La domenica mattina. Lì mi aspettava mia madre. Sempre sveglia, quando arrivavo. Ogni domenica mattina mi spiegava qualcosa. Roba tecnica, roba difficile. Come funziona una banca. Come si fabbrica una lampadina. Che cosa sono le comete, come si costruiscono i grattacieli. Una volta mi ha raccontato come si faceva il vetro. Ma quella è stata l’ultima. Io rimanevo affascinato ad ascoltarla. Lei era tutta la mia famiglia e poi sapeva tutto quello che avrei voluto sapere. Quindi ero tutto ciò che mi serviva. Ero felice. E quelle domeniche mattina non me lo sono mai dimenticate. Molti anni dopo ho scoperto che lei passava il sabato sera a leggere quelle cose su una vecchia enciclopedia. Il “Conoscere”, quella con la copertina rigida rossa e le scritte dorate. Poi, la mattina, me le ripeteva. Come fosse un suo patrimonio personale, da condividere con me. È per questo che, quasi vent’anni dopo, gioco a fare questa piccola pantomima. Così, per restituirle il favore.
Ogni tanto faccio in modo che lei mi domandi qualcosa. Una domanda pertinente, magari complicata. Adatta a quello che sto dicendo in quel momento. Le metto le parole in bocca, ma lascio che lei trovi il suo tempo. Alla fine lei la fa, quella domanda. E si guarda intorno, per scoprire se c’è qualcuno che la sta osservando. Sperando che ne ascolti le parole e ne colga l’attenzione. Qualcuno che, sentendola parlare, non possa avere nemmeno il sospetto che la sua mente è devastata ed il suo spirito in agonia. Nessuno che possa neppure immaginare che fra meno di due ore tornerà in un ospedale dove non le fanno usare forchetta e coltello. Io allora sgrano gli occhi e la osservo con uno sguardo stupito, come se proprio non mi aspettassi quella domanda. Poi le rispondo. Approfondisco, analizzo, spiego di nuovo. Infine le porgo un’altra domanda. In attesa di ricominciare.
Il nostro gioco continua a lungo. Lei sembra assorta e non vorrebbe smettere più. Io la osservo mentre si lascia scorrere le parole addosso e si chiude nel suo silenzio senza fine. Ma poi guardo l’ora. È tardi. Concludo in fretta il mio gioco e ripiego il tovagliolo. Lei riapre gli occhi e si guarda le mani. È il segnale, lo sappiamo entrambi.
Il ristorante è deserto, adesso. Qui si mangia presto e alle due passate non c’è più nessuno. Beviamo il caffé. Decaffeinato e con il latte per lei. Ristretto e senza zucchero per me. In fondo anche questa è una distanza fra noi. Il sole è sparito e la luce fuori si è fatta debole. Il lago un po’ più scuro e il vento è tornato a spazzare le onde.
Chiedo il conto e intanto guardo fuori dalla vetrata. Cinque ore passano veloci. Soprattutto se le aspetti per due settimane. Volano via che nemmeno te ne accorgi. Ma ci sono delle regole. E quindi è ora di rientrare. Punto.
La strada al ritorno sembra più breve. La percorriamo in pochi minuti, perlopiù in silenzio. I colori sono meno intensi, le ombre appiattiscono tutto. Non c’è più profondità. Solo una specie di foschia. Ora sembra inverno veramente. Ci fermiamo qualche minuto in paese. Alcune cose da comprare. Biscotti, marmellata di arance, calze, grissini all’acqua, un paio di guanti di lana, qualche rivista, ma che sia illustrata e con i caratteri grossi. Poi è veramente tardi e la salita la facciamo di fretta. Rallento solo sui tornanti. Non posso permettermi che lei stia male. Sono le tre meno cinque.
Parcheggio. Questa volta più lontano, perché il piazzale è pieno. È domenica ed è orario di visite. Siamo davanti al portone. Mia madre mi tiene per mano. Mi segue, come fosse una bambina. Poi, d’improvviso si ferma.
– “Che ore sono?”
– “Mancano due minuti.”
– “Aspetta allora.”
E rimane ferma. Davanti al cancello. Non guarda nulla. Da qui la vista sul lago è splendida, anche se è grigio e cupo. Ma lei non guarda. Si dondola su un piede e poi su un altro. Ha lo sguardo rivolto al portone di legno, ma non lo vede. Siamo proprio in mezzo al passaggio ed alcune persone ci urtano. Qualcuna ci chiede di spostarci. Ma lei non sente nulla. Non vede e non sente nulla. Rimane immobile. Ed io aspetto di fianco a lei.
– “È ora?”
– “Sì, mamma.”
– “Allora andiamo.”
Entriamo. Lei va verso la sua stanza ed io mi fermo a firmare le carte del rientro. Cinque minuti di ritardo, va bene. Starò più attento la prossima volta. Poi passo dal dottore e gli racconto come è andata. Soprattutto gli racconto di quando lei ha capito che volevo portarla lontano, perché nessuna la riconoscesse. Lui mi sorride e mi batte una mano sulla spalla. Non mi dice nulla. Scrive qualcosa su un foglio, poi mi saluta e ritorna alle sue occupazioni. Io salgo in reparto con le braccia appesantite dai sacchetti del supermercato. Dovrò svuotarli e portarli via. Niente sacchetti di plastica qui.
Mia madre è seduta sul letto. Si è già cambiata. Vestaglia di lana e un pigiama maschile. Sembra più vecchia, ora.
– “Vai. È tardi e poi cala la nebbia.”
– “Sì, adesso parto. Non ti serve niente?
– “No, stai tranquillo.”
– “Va bene. Ci vediamo fra due settimane. Chiamami, quando puoi.”
– “Sì, ti chiamo. Sei il mio amore grande, lo sai?”
– “…”
– “Lo sai?”
– “Sì, mamma. Dammi un bacio che vado.”
La bacio. È sudata. Trema un po’ di più, la sua pelle scotta. È solo stanca, credo. Troppe emozioni. Non c’è più abituata. Le prime volte mi spaventavo, poi ho scoperto che era sempre così, ogni volta che ripartivo.
Esco svelto dall’ospedale. Fra poco comincia il traffico e voglio evitarlo. Poi devo vedermi con un paio di amici e uscire a cena. Risalgo in macchina. Non sono nemmeno le quattro e devo già accendere le luci. Anche il riscaldamento, che ormai fa freddo veramente. Riparto e percorro di nuovo la stessa strada. Fuori dal parcheggio, la discesa e il paese. Più velocemente, questa volta. L’autostrada scivola via mentre le luci delle macchine mi arrossano gli occhi. Casello, casa, doccia e di nuovo fuori.
La sera scorre tranquilla. Ci sono poche domande, molti sguardi e un insolito calore che mi prende lo stomaco. Sorrido se c’è da sorridere ed ascolto se c’è da ascoltare. Quando giunge un orario decente, mi invento una scusa per tornare a casa. Ci sono sempre scuse buone per chi vive da solo.
Arrivo a casa. Di nuovo doccia. Preparo i vestiti per il giorno dopo e mi scaldo un po’ di caffè. Lo bevo in silenzio. Lavo la tazza, la lascio a sgocciolare sul lavandino e poi mi infilo a letto. Finalmente appoggio la testa al cuscino. Sono stanco. Infinitamente stanco. Ho solo voglia di chiudere gli occhi e riposare. Guardo l’orologio. Fra dieci minuti è già lunedì.
Biografia: Marco Antonelli
Nato a Milano, nel gennaio 1961. Sposato, con un figlio, si occupa da oltre 30 anni di ingegneria della sicurezza, con diverse esperienze in aziende nazionali ed europee e la partecipazione a centinaia di seminari tecnici e scientifici, nei quali propone, fra i primi in Italia, l’uso di moderne tecniche di comunicazione ed introduce, in ambito ingegneristico, l’uso dell’intelligenza emotiva. Si avvicina alla narrativa in età adolescenziale, ma solo nella maturità comincia a scrivere racconti più lunghi ed affronta l’esperienza del romanzo. Pubblica numerosi articoli tecnici, parte dei quali raccolti nel volume “Antologia organica di Prevenzione Incendi”, e qualche novella su giovani riviste letterarie. Partecipa ad alcuni premi letterari nazionali con i seguenti risultati: primo premio al Premio di Letteratura “Licurgo Cappelletti” nel 2005, al Premio Letterario Favolando 2005, al Premio nazionale Cavedio nel 2007 ed al Concorso letterario S. Lorenzo nel 2010. Secondo posto al 3° Premio Letterario Internazionale Interrete, menzione d’onore al Premio Firenze Letteratura ed al Premio letterario Città di Chieri.
Marco Antonelli
Nato a Milano, nel gennaio 1961. Sposato, con un figlio, si occupa da oltre 30 anni di ingegneria della sicurezza, con diverse esperienze in aziende nazionali ed europee e la partecipazione a centinaia di seminari tecnici e scientifici, nei quali propone, fra i primi in Italia, l’uso di moderne tecniche di comunicazione ed introduce, in ambito ingegneristico, l’uso dell’intelligenza emotiva. Si avvicina alla narrativa in età adolescenziale, ma solo nella maturità comincia a scrivere racconti più lunghi ed affronta l’esperienza del romanzo. Pubblica numerosi articoli tecnici, parte dei quali raccolti nel volume “Antologia organica di Prevenzione Incendi”, e qualche novella su giovani riviste letterarie. Partecipa ad alcuni premi letterari nazionali con i seguenti risultati: primo premio al Premio di Letteratura “Licurgo Cappelletti” nel 2005, al Premio Letterario Favolando 2005, al Premio nazionale Cavedio nel 2007 ed al Concorso letterario S. Lorenzo nel 2010. Secondo posto al 3° Premio Letterario Internazionale Interrete, menzione d’onore al Premio Firenze Letteratura ed al Premio letterario Città di Chieri.
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