Poesia – Premio Letterario Internazionale Merano-Europa – Seconda Edizione – 1997
Secondo Premio
Corrado Calabrò
Il tempo s’è voltato allo scirocco…
Il tempo s’è voltato allo scirocco;
incombe basso il cielo su Lavezzi.
Giovani corpi dai glutei rotondi
e i fianchi scarni
si offrono nudi alla stella del giorno
su lastre stondate di granito,
disposte intorno come are solari.
L’onda avanza sullo scoglio
e l’abbruna
come l’ombra di nuvola che passa.
Così un amore, a volte,
attraversa una vita e se ne adombra.
S’agita il mare fino a che trabocca
nelle lagune chiare di Lavezzi,
che con occhi di cielo lo decantano
con una regolare scolmatura.
Sola, una stella campeggia nel cielo,
oscurando tutte le altre.
Sola, una donna irrora le mie arterie
soffocando il battito del polso.
Fluttua la barca sopra l’acqua cheta:
sarà passata qualche nave al largo.
Con uno sfiato d’organo silente
fa un grande respiro la risacca.
C’è il senso d’una strana incubazione.
Cullato appena, col bicchiere in mano,
il senso del mare si ritrova
in quello che chi l’ama non sa dire.
Sciangotta l’acqua ai fianchi della barca.
M’affaccio ai bordi:
il mare da ogni lato è calmo piatto.
Pure ogni tanto, a grande intermittenza,
giunge chi sa da dove un’onda lunga.
Morbide e placide ondate s’allungano
una sull’altra, come cera fusa.
Entra, onda a onda, nell’udito,
come un ultrasuono,
questo mare silente.
Entra, onda a onda, nella mente
come un male dell’anima.
Ecce tibi filius
Hanno spigoli netti le ombre
delle case sventrate di Grozny.
Nere, la luna spinge madri insonni
tra mucchi di neve alla ricerca,
ogni notte in spazi troppo bianchi.
Cercano la loro via alla vita,
la loro via alla morte, i nostri figli.
Svoltano, a un isolato di distanza,
da un altro lato; ed è per questo che
è così raro che li ritroviamo.
L’attesa di ogni madre è una moneta
che subisce ogni volta una tonsura.
Stringe forte alla gola in un nodo,
spolverato di bianco, il fazzoletto;
imperlate di bianco la fronte,
le palpebre. Passa sulle labbra
e le dissecca il vento, come un lapis
emostatico, e via spazza le strade
schiaffeggiando bandiere bruciacchiate.
Visori dell’ansia, solo gli occhi
ardono nelle occhiaie come carboni.
Guidano a una ricerca dissennata:
non della mamma, ma di munizioni,
abbisognano i figli, se vivi;
e pesano troppo, se morti,
perché nessuna madre al mondo possa
riportarseli indietro sulle braccia.
Accanto a corpi illividiti giacciono
ferree ghirlande, le sole che il vento
non spazza; nastri di mitragliatrici,
cingoli spezzati di goffi
e fumanti carri disarmati.
Lì, fermato per sempre e ancora in fuga
come un pompeiano calcinato,
lì, madre, quasi una foto di guerra,
lì in cima alla torretta puoi guardare,
come a un monumento familiare,
all’immolato corpo d’antracite
d’un figlio di madre lontana.
Stanca le ali
M’agguanti l’anima ancora,
come un falcone il pugno,
e da lei spicchi il tuo volo
per riagguantarla più forte al ritorno.
Bruciano,
ai bordi ingrigiti del pratone,
le foglie di eucalipto;
bruciano all’aria chiara incenso immemore.
Tornerai, non tornerai:
stanca l’azzurro le ali al desiderio.